giovedì 19 novembre 2009

Eaco a Napoli.

I segnali si sono evoluti per manipolare il comportamento di un altro essere

Il problema evoluzionistico del linguaggio è il suo apparente altruismo.

Gran parte del nostro parlare, fatta eccezione per gli ordini e le domande, serve a trasferire informazioni potenzialmente utili dall’emittente (colui che parla) al ricevente (colui che ascolta). Parlare costa tempo ed energia e sembra recare vantaggi solo all’ascoltatore. Sembra quindi un’azione altruistica. Ma l’evoluzione tende a evitare i comportamenti altruistici. Cinquanta anni fa, la comunicazione altruistica non sembrava un problema. L’etologo Konrad Lorenz aveva sostenuto che comunicare servisse al bene della specie. Si riteneva che comportamenti ritualizzati, come il ringhio di un cane, servissero a trasmettere un’informazione precisa sul livello di aggressività di un individuo e sulla sua volontà di combattere. Se un cane che ringhia incontra un altro cane che non ringhia, quest’ultimo dovrebbe abbandonare il campo ed evitare alla propria specie un inutile combattimento fra cani. Per diversi decenni, il dogma per i biologi era che il segnale nel mondo animale significasse comunicazione, che la comunicazione rivelasse emozioni e intenzioni, e che si fosse evoluta per rendere più efficienti le relazioni sociali.
Con l’avvento della teoria del gene egoista negli anni Settanta questa visione idilliaca del segnale animale finì in pezzi: i caratteri non si sono evoluti per il bene della specie. Nel loro fondamentale articolo del 1978, Richard Dawkins e John Krebs sostenevano che gli animali avrebbero potuto evolvere la produzione di segnali solo nel caso in cui i segnali avessero conferito loro un vantaggio netto in termini di fitness, vantaggio consistente in un aiuto a duplicare i propri geni a spese degli altri. L’evoluzione non può favorire una condivisione altruistica delle informazioni più di quanto possa favorire l’altruistica condivisione del cibo. Pertanto, la maggior parte dei segnali animali debbono essersi evoluti per manipolare il comportamento di un altro animale a proprio vantaggio. Il cane ringhia perché è più facile intimidire un rivale che combatterlo. La teoria moderna dei segnali animali si è sviluppata a partire da questa intuizione. I segnali in realtà non trasmettono informazioni sul mondo, perché gli emittenti hanno molte buone ragioni per mentire sul mondo. La teoria sostiene che gli animali in generale si sono evoluti per ignorare i segnali di altri animali che possono essere usati per manipolazione. Ci sono poche eccezioni. I predatori ricevono segnali dalle prede che, in modo attendibile, avvertono: «Non puoi prendermi», oppure «Sono velenoso» (gli animali che si nascondono dai predatori hanno evoluto il mimetismo, il cui scopo è di nascondere anziché trasmettere segnali della propria esistenza). E gli animali che cercano un buon partner con cui accoppiarsi ascoltano i segnali del tipo: «ho dei buoni geni». Tutto qui. A eccezione di quelli di velenosità, questi segnali sono contemporaneamente tutti anche indicatori di fitness. Qualsiasi altro tipo di segnale che si è evoluto in natura è probabilmente pura manipolazione, che espone il ricevente alle menzogne, alla chiacchiera melliflua e alla propaganda.
Di fatto non ci sono modelli di segnali animali nei quali è possibile che si evolvano informazioni sempre attendibili, dato che emittente e ricevente hanno forti conflitti di interessi. Le api usano danze per indicare la direzione e la distanza del cibo, ma le api sono sorelle dello stesso alveare e hanno quindi lo stesso interesse comune.

tratto da: “Uomini, donne e code di pavone”, Miller G., Einaudi

mercoledì 4 novembre 2009

Quando l'uso diventa abuso

Un atto estremo, plateale e pertanto inutile, privo anche del più elementare requisito: la speranza.
Come si fa, anche per un solo istante, a credere che un gesto così efferato possa generare un moto dell’animo che non sia la paura? Una dichiarazione di guerra alle coscienze o solo un atto di “guerriglia”? Un vero e proprio “spot”, in linea con la tivù commerciale, che evidenzia come la mafia “certi lavori” li esegue con precisione e “pulizia”. Se lo scopo era identificare l’autore del crimine non bastava pubblicare il fotogramma con il volto? Il fine è prendere il colpevole o inviare messaggi? Un modo di agire incomprensibile che denota paura. Come se si volesse distogliere lo sguardo dell’opinione pubblica forzandola a guardare altrove. Per l’uomo ucciso nessuna pietà, nemmeno quel minimo di dignità che ogni “vita”, almeno dinanzi alla morte, merita.

Tratto da “Un’isola” di Giorgio Amendola:
Inviati al tribunale di Napoli, sulla base del verbale dell’interrogatorio, fummo assolti dalla imputazione di rissa, grazie alla difesa di Claudio Ferri, per insufficienza di prove. Nella stessa udienza vennero svolti rapidamente altri processi per reati di varia natura, con rituali difese d’ufficio (“Mi rimetto all’indulgenza della Corte…”) e dure condanne. Quando, terminata l’udienza, il presidente si alzò, un vecchietto seduto accanto a me domandò: «E a me non lo fate il processo?». Il presidente, visibilmente seccato, gli chiese il nome e, sfogliate alcune carte, freddissimo gli disse di averlo già chiamato. «Non hai risposto e ti abbiamo condannato in contumacia a cinque anni per ubriachezza e schiamazzi». Il vecchietto non sapeva che cosa fosse essere dichiarato contumace e si affannò a dire che era sempre stato presente, condotto in quell’aula dai carabinieri. Si rivolse ai carabinieri di scorta, per sollecitare la loro testimonianza, ma questi, non interrogati, non intervennero. Tentai di parlare, per confermare che era stato sempre presente e che, per non aver udito il suo nome, non poteva essere dichiarato contumace. «Lei non c’entra, stia zitto, del resto è sempre possibile al condannato ricorrere in appello».
Fui colpito dalla fredda disumanità di quel magistrato che voleva correre a casa per il pranzo e non voleva perdere tempo per colpa di un vecchio sordo ed ignorante. Il palese disprezzo dell’uomo era proprio di una certa tradizione della magistratura italiana che, anche prima del fascismo, era riconosciuta, tranne rare eccezioni, come conservatrice, quasi sempre espressione dei ceti più retrivi dei proprietari agrari, una magistratura di classe, la giustizia dei signori. In fondo, per quanto detenuto politico comunista, io avevo avuto un trattamento migliore perché avevo un buon avvocato, sapevo parlare, ero considerato dal quel giudice come uno della sua classe. Sempre il “figlio del ministro”.


Le coscienze non si violentano ma si fanno crescere nella consapevolezza dei propri diritti.