“Inviati al tribunale di Napoli, sulla base del verbale dell’interrogatorio, fummo assolti dalla imputazione di rissa, grazie alla difesa di Claudio Ferri, per insufficienza di prove. Nella stessa udienza vennero svolti rapidamente altri processi per reati di varia natura, con rituali difese d’ufficio (“Mi rimetto all’indulgenza della Corte…”) e dure condanne. Quando, terminata l’udienza, il presidente si alzò, un vecchietto seduto accanto a me domandò: «E a me non lo fate il processo?». Il presidente, visibilmente seccato, gli chiese il nome e, sfogliate alcune carte, freddissimo gli disse di averlo già chiamato. «Non hai risposto e ti abbiamo condannato in contumacia a cinque anni per ubriachezza e schiamazzi». Il vecchietto non sapeva che cosa fosse essere dichiarato contumace e si affannò a dire che era sempre stato presente, condotto in quell’aula dai carabinieri. Si rivolse ai carabinieri di scorta, per sollecitare la loro testimonianza, ma questi, non interrogati, non intervennero. Tentai di parlare, per confermare che era stato sempre presente e che, per non aver udito il suo nome, non poteva essere dichiarato contumace. «Lei non c’entra, stia zitto, del resto è sempre possibile al condannato ricorrere in appello».
Fui colpito dalla fredda disumanità di quel magistrato che voleva correre a casa per il pranzo e non voleva perdere tempo per colpa di un vecchio sordo ed ignorante. Il palese disprezzo dell’uomo era proprio di una certa tradizione della magistratura italiana che, anche prima del fascismo, era riconosciuta, tranne rare eccezioni, come conservatrice, quasi sempre espressione dei ceti più retrivi dei proprietari agrari, una magistratura di classe, la giustizia dei signori. In fondo, per quanto detenuto politico comunista, io avevo avuto un trattamento migliore perché avevo un buon avvocato, sapevo parlare, ero considerato dal quel giudice come uno della sua classe. Sempre il “figlio del ministro”.”
Le coscienze non si violentano ma si fanno crescere nella consapevolezza dei propri diritti.
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