Ho raccolto la “testimonianza” di una donna che ho conosciuto circa tre anni fa e che ogni qualvolta la incontravo, oltre ai convenevoli saluti, aggiungeva sempre: «Qualche volta ci sediamo a prendere qualcosa da bere e parliamo un po’». Il suo sembrava un “intercalare”, un modo per dire: “Mi farebbe piacere fare due chiacchiere”. Niente di più. Lei, come me, è meridionale ma di una provincia lontana. Volutamente non dirò il suo nome e né farò riferimento a cose, luoghi o persone che possano, anche lontanamente, ricondurre a Lei, in questo modo il racconto potrà rivelarsi un po’ “disarticolato” ed alcuni passaggi di difficile comprensione ma non posso fare altrimenti. Ho deciso di scrivere questo episodio per dare un’eco, un modestissimo contributo, al dramma quotidiano di tante persone che “vivono” il male “oscuro”.
«Dai prendiamoci qualcosa, sediamoci in quel caffè, così ti racconto una storia».
Il tono dato, alle sue parole, mi risuonò come un invito da non poter rifiutare. Non c’era, assolutamente, seduzione nella sua voce. La sua sembrava più una “preghiera”. Non riuscivo a capire il perché, in fondo l’avevo conosciuta come una brillante imprenditrice senza apparenti problemi.
Accomodatici in una saletta interna di un noto caffè partenopeo, ordinammo un’infusione di thè verde per Lei ed una granita di limone per me, faceva realisticamente caldo, ma Lei sembrava che avesse il bisogno di riscaldarsi. Aprì la sua borsa ed incominciò a “rovistarci” con quel tipico modo, che hanno le donne, nel cercare qualcosa, con la testa piegata ad angolo retto e spostando, da una parte all’altra della borsa, il contenuto fino ad estrarre un pacchetto di sigarette e l’accendino. Incominciò a fumare nervosamente, rivolgendo lo sguardo, oltre una tenda a plissè, in un punto indefinito del cielo. Io cercavo di assumere un atteggiamento disinvolto e, non so con quale risultato, questo per evitare che il mio vero stato d’animo potesse emergere e procurarle maggiore tensione, evitai anche di ammonirla sulla circostanza che in quel luogo non si poteva fumare. Non so dire quanto tempo rimanemmo in quello stato, fummo distratti dal cameriere che ci servì le ordinazioni. Lei improvvisamente mi rivolse la parola chiedendomi: «Sai di cosa tratta “il teorema delle 3 M”». Rimasi interdetto. L’unica cosa a cui pensai, nel sentire quella sigla, fu la nota multinazionale americana ma rimasi in silenzio. Non riuscivo a focalizzare. Non so perché ma avvertivo che la sua domanda racchiudesse qualcosa di “rilevante” che andava oltre l’immaginazione e non solo della mia. Mi parlava con delle pause tra una frase e l’altra come se scegliesse con cura particolare le parole.
«Siamo tanti nelle mani di pochi». «Non c’è la benché minima possibilità di sottrarsi al loro giogo». «Ho cercato di combattere ma sono dappertutto». «Mi sembra di vivere in prima persona il film: Invasion of the Body Snatchers».
Le chiesi: "Scusa, di cosa stai parlando?”
Mi guardò, sorrise ed abbassò la testa. A capo chino ripeté: «Di cosa sto parlando?» «Di cosa sto parlando?» «Di cosa sto parlando?» «Sto parlando della mafia!» «Della fottutissima mafia!» «Non di quella presente nell’immaginario collettivo ma della vera ed unica mafia, quella del potere assoluto ed incontrastato. Uno e trino».
Una domanda s’impadronì, in maniera veloce e compulsiva, della mia mente: “Perché hai deciso di parlarne con me?”
«So che tu mi puoi capire».
“Cosa sai?” Il mio tono si fece perentorio. Lei mi guardò, abbassò gli occhi e disse:
«Hanno fatto di me tutto quello che volevano». «Il male è “oscuro” solo per chi non lo “riconosce” e chi lo conosce è solo se tenta di combatterlo». «Non c’è difesa alcuna». «Il Sud non ha nessuna speranza».
Rimasi in silenzio per alcuni minuti, continuando a “gustarmi” quella granita che sembrava essere, inaspettatamente, più aspra del dovuto, non avevo voglia di aggiungere nulla a quanto aveva detto.
Poi le chiesi: “Chi ti ha parlato di me?”.
Mi fissò diritto negli occhi, senza parlare. Voleva piangere ma si trattenne.
Continuai: “Perdonami ma certi argomenti per me non sono da condividere. Non voglio essere e né apparire insensibile al dolore altrui. Sono convinto che, al di là di ogni ragionevole sforzo, non si può essere in grado di comprendere, a pieno, l’altrui sofferenza”. Ci salutammo con la promessa che ci saremmo rivisti.
Nell’allontanarmi pensai: “In fondo è una donna sola che cerca di crescere una figlia. Avrà patito e forse patirà le pene dell’inferno. Chi sa quanti prima di me avranno “ascoltato” il suo dramma? E tentato, anche, di consolarla”.
Quello che, forse, rappresento per Lei, io non riesco e non riuscirò mai a vederlo in nessuno. Non ho mai pensato al “mal comune mezzo gaudio”. La coscienza civile non nasce dalla sofferenza ma dalla consapevolezza.
«Dai prendiamoci qualcosa, sediamoci in quel caffè, così ti racconto una storia».
Il tono dato, alle sue parole, mi risuonò come un invito da non poter rifiutare. Non c’era, assolutamente, seduzione nella sua voce. La sua sembrava più una “preghiera”. Non riuscivo a capire il perché, in fondo l’avevo conosciuta come una brillante imprenditrice senza apparenti problemi.
Accomodatici in una saletta interna di un noto caffè partenopeo, ordinammo un’infusione di thè verde per Lei ed una granita di limone per me, faceva realisticamente caldo, ma Lei sembrava che avesse il bisogno di riscaldarsi. Aprì la sua borsa ed incominciò a “rovistarci” con quel tipico modo, che hanno le donne, nel cercare qualcosa, con la testa piegata ad angolo retto e spostando, da una parte all’altra della borsa, il contenuto fino ad estrarre un pacchetto di sigarette e l’accendino. Incominciò a fumare nervosamente, rivolgendo lo sguardo, oltre una tenda a plissè, in un punto indefinito del cielo. Io cercavo di assumere un atteggiamento disinvolto e, non so con quale risultato, questo per evitare che il mio vero stato d’animo potesse emergere e procurarle maggiore tensione, evitai anche di ammonirla sulla circostanza che in quel luogo non si poteva fumare. Non so dire quanto tempo rimanemmo in quello stato, fummo distratti dal cameriere che ci servì le ordinazioni. Lei improvvisamente mi rivolse la parola chiedendomi: «Sai di cosa tratta “il teorema delle 3 M”». Rimasi interdetto. L’unica cosa a cui pensai, nel sentire quella sigla, fu la nota multinazionale americana ma rimasi in silenzio. Non riuscivo a focalizzare. Non so perché ma avvertivo che la sua domanda racchiudesse qualcosa di “rilevante” che andava oltre l’immaginazione e non solo della mia. Mi parlava con delle pause tra una frase e l’altra come se scegliesse con cura particolare le parole.
«Siamo tanti nelle mani di pochi». «Non c’è la benché minima possibilità di sottrarsi al loro giogo». «Ho cercato di combattere ma sono dappertutto». «Mi sembra di vivere in prima persona il film: Invasion of the Body Snatchers».
Le chiesi: "Scusa, di cosa stai parlando?”
Mi guardò, sorrise ed abbassò la testa. A capo chino ripeté: «Di cosa sto parlando?» «Di cosa sto parlando?» «Di cosa sto parlando?» «Sto parlando della mafia!» «Della fottutissima mafia!» «Non di quella presente nell’immaginario collettivo ma della vera ed unica mafia, quella del potere assoluto ed incontrastato. Uno e trino».
Una domanda s’impadronì, in maniera veloce e compulsiva, della mia mente: “Perché hai deciso di parlarne con me?”
«So che tu mi puoi capire».
“Cosa sai?” Il mio tono si fece perentorio. Lei mi guardò, abbassò gli occhi e disse:
«Hanno fatto di me tutto quello che volevano». «Il male è “oscuro” solo per chi non lo “riconosce” e chi lo conosce è solo se tenta di combatterlo». «Non c’è difesa alcuna». «Il Sud non ha nessuna speranza».
Rimasi in silenzio per alcuni minuti, continuando a “gustarmi” quella granita che sembrava essere, inaspettatamente, più aspra del dovuto, non avevo voglia di aggiungere nulla a quanto aveva detto.
Poi le chiesi: “Chi ti ha parlato di me?”.
Mi fissò diritto negli occhi, senza parlare. Voleva piangere ma si trattenne.
Continuai: “Perdonami ma certi argomenti per me non sono da condividere. Non voglio essere e né apparire insensibile al dolore altrui. Sono convinto che, al di là di ogni ragionevole sforzo, non si può essere in grado di comprendere, a pieno, l’altrui sofferenza”. Ci salutammo con la promessa che ci saremmo rivisti.
Nell’allontanarmi pensai: “In fondo è una donna sola che cerca di crescere una figlia. Avrà patito e forse patirà le pene dell’inferno. Chi sa quanti prima di me avranno “ascoltato” il suo dramma? E tentato, anche, di consolarla”.
Quello che, forse, rappresento per Lei, io non riesco e non riuscirò mai a vederlo in nessuno. Non ho mai pensato al “mal comune mezzo gaudio”. La coscienza civile non nasce dalla sofferenza ma dalla consapevolezza.
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